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Itinerario 4: Il Disastro di Via Digione (Parte seconda)
Le cause del disastro
Le autorità locali nominarono diverse commissioni incaricate di indagare le cause del disastro e valutare i provvedimenti tecnici più opportuni per la messa in sicurezza del fronte roccioso visto e considerato che oltre al civico n.8, altri palazzi erano posizionati in settori giudicati molto pericolosi. Anche il Prof. Luigi Peretti del Politecnico di Torino, che trent’anni prima era il consulente tecnico di Parte Civile nel processo sul Disastro di Molare, faceva parte di una delle commissioni. Egli fu autore del principale contributo scientifico pubblicato negli “Atti dell’Istituto di Geologia dell’Università di Genova” e riguardante il crollo di Via Digione. Come fu possibile che una bancata di solida roccia calcarea, di dimensioni pari a circa 50x60x5 m sia scivolata improvvisamente?
Come detto il fronte dell’ex cava degradante verso Est era costituito da grandi strati di calcare la cui orientazione (“giacitura”) era caratterizzata da un’immersione anch’essa verso Est (assetto “a franapoggio”). Ma cosa separava una bancata da quella sottostante? All’interno della Formazione del Monte Antola è frequente trovare interposti tra gli spessi strati calcarei dei livelletti di un materiale molto meno duro e poco compatto chiamato “argilloscisto”. Questi orizzonti di colorazione molto scura e fogliettati raramente superano il metro di spessore e più frequentemente hanno spessore tra i 20-50 cm. Sono materiali molto infidi soprattutto se vengono a contatto con l’acqua. Sul fronte roccioso di Via Digione percolava non solo l’acqua piovana ma anche quella degli impianti di irrigazione del vivaio dei “Fratelli Firpo”. Queste acque irrigue, penetravano lentamente ed inesorabilmente il sottile manto terroso che costituiva le fasce coltivate raggiungendo la roccia. Poco alla volta, nel corso degli anni, esse si erano insinuate profondamente negli interstizi e nelle fratture saturando l’orizzonte di argilloscisto alla base del bancone calcareo e rendendolo molto scivoloso.
Tale azione dell’acqua non sarebbe stata però sufficiente a giustificare lo scivolamento in quanto come già accennato, la bancata anche se potenzialmente svincolata da quella sottostante non era libera di scivolare poiché era appoggiata alla base della cava né poteva ribaltarsi data la sua inclinazione. Occorreva in sostanza che qualcosa o qualcuno la liberasse scalzandola. Le bancate erano curvate e ciò era la conseguenza delle grandi forze che nei tempi geologici avevano eretto i rilievi liguri. Se i sottili livelli di argilloscisto erano molto duttili alle deformazioni, lo stesso non si poteva dire delle spesse e compatte bancate di calcare. Esse si erano deformate e piegate, ma nella loro struttura rocciosa questo stress aveva prodotto delle fratture per lo più ortogonali agli strati.
L’acqua quindi, oltre ed infiltrarsi nell’argilloscisto aveva compiuto un’azione inesorabile anche lungo queste fratture. Quando il Sig. Solari ed i codomini video aprirsi le fratture e poco dopo i muri ed i contrafforti spostarsi, non videro altro che un primo cuneo di rocciosa staccarsi. Ecco lo svincolo che lasciò idealmente libera la bancata di scivolare. Fu come togliere un cuneo da sotto le ruote di un carro parcheggiato in discesa. L'acqua e le discontinuità strutturali delle rocce non portano mai a risultati positivi in campo ingegneristico: ciò è valso nel 1935 per Sella Zerbino, nel 1959 per la Diga di Malpasset, nel 1963 per il versante settentrionale del Monte Toc e nel nel 1968 per il fronte di Via Digione. In tutti questi casi il nefasto sposalizio tra acqua e roccia è stato celebrato dall’uomo.
La non vicenda processuale: ancor peggio di Molare 1935
“Se la sentenza istruttoria di via Digione facesse proseliti, dovremmo tutti riconoscere che la nostra personale sicurezza dalle catastrofi naturali, già non troppo buona ma perfettibile come questo libro insegna, si avvia ad un sicuro peggioramento”. Così concluse il Prof. Floriano Calvino dell’Università di Genova nella sua nota riguardante “La Frana di Via Digione a Genova” contenuto nel libro “Le catastrofi naturali sono prevedibili” di Marcel Roubault (Ed. Einauidi, 1973).
Lo sconcerto che si prova nell’apprendere l’amaro epilogo della vicenda processuale del Disastro di Molare, oppure l’indignazione al riguardo delle tempistiche geologiche che resero una molto parziale giustizia alle vittime del Vajont, non possono che essere amplificati venendo a conoscere l’esito giudiziario della tragedia di Via Digione. Cosa può esserci di peggio di una completa assoluzione degli imputati per non aver commesso il fatto (come il crollo della diga di sella Zerbino il 13 agosto 1935), verdetto questo ottenuto grazie a mille cavilli tecnico-giuridici e varie speculazioni? Per il Disastro di Molare l’indignazione è “smorzata” dalla forviante consapevolezza che dopo tutto l’Italia negli anni ‘30 era in pieno regime fascista. Magra consolazione tuttavia. La lettura e lo studio delle carte del dibattimento permettono di affermare senza particolare possibilità di smentita che l’esito per processo del 1938 non sarebbe cambiato neanche se si fosse celebrato a Milano presso Piazzale Loreto nell’agosto 1945. Il disastro di Via Digione capitò nel “mitico” anno 1968 a Genova in periodo repubblicano.
E’ possibile quindi trovare una spiegazione accettabile al fatto che non solo non ci furono colpevoli per tale tragedia ma che addirittura non venne neanche fatto un processo ?!?!
Allo stato attuale solo il Prof. Calvino ed il suo contributo “La Frana di Via Digione a Genova” può venirci in aiuto in quanto gli atti ufficiali sono archiviati presso il Tribunale di Genova e meriterebbero un’approfondita analisi. I consulenti tecnici nominati d'ufficio dalla Procura della Repubblica nel procedimento aperto contro ignoti, negarono incomprensibilmente che il condominio di Via Digione fosse costruito su un terreno “…sede di frane in atto o potenziali…”. Questa sconcertante presa di posizione poteva allora essere applicata anche in Valle del Vajont concludendo che solo il versante settentrionale del Monte Toc era a “rischio frana” ed il fatto che esso fosse caduto dentro il lago della SADE, non faceva di quest’ultimo un’area a “rischio frana”. Insomma, una follia oltre che un’aberrazione tecnica. I consulenti tecnici, dei quali il Prof. Calvino non fa i nomi ma è probabile che fossero suoi colleghi, conclusero tuttavia che, visti i precedenti che avevano contraddistinto la vita del versante sopra il condominio, il verificarsi di una nuova frana “…di entità imprecisabile, appariva prevedibile…”. Riassumendo: il condominio non era situato in un’area a rischio frana, tuttavia un collasso della parete rocciosa era prevedibile. Il Pubblico Ministero comprensibilmente sconcertato chiese chiarimenti al suo pool tecnico ed esso rispose con la seguente asserzione che avrebbe a dir poco estasiato persino i consulenti delle O.E.G. del 1938:
“Una diagnosi dalla quale emergesse la situazione instabile della parete rocciosa non richiedeva cognizioni tecniche di altissimo grado ma pur sempre di carattere specializzato, non rientranti nel patrimonio nozionistico di qualsiasi ingegnere”.
In altre parole era ovvio che il collasso sarebbe avvenuto, ma nessun ingegnere poteva dirlo in quanto nessun ingegnere aveva mai pensato di rivolgersi ad un geologo! Il Prof. Calvino stigmatizzò con un laconico “Chi teme di commettere un disastro colposo ora è avvertito: si guardi dagli specialisti come consiglieri!”. L'azione penale non fu pertanto proseguita, perché il fatto non costituiva reato, avendo il giudice istruttore accolto la richiesta del pubblico ministero.
Nella motivazione si leggeva: “Pur non del tutto esclusa da una prevedibilità, per così dire, astratta, una simile frana non poteva che confinarsi nel ristretto margine di un'eventualità anormale o atipica, del tutto incerta e improbabile, come un evento eccezionale, concretamente imprevedibile e quasi impensabile; e tale deve considerarsi veramente, poiché, a prescindere dalle vittime, risulta trattarsi di un evento rarissimo che non ha quasi esempi, almeno in tempi non remoti, nel Genovesano... Trattasi pertanto di una calamità annoverabile tra quelle che non possono essere evitate con la normale condotta doverosa, peri difetti della quale è prevista la colpa punibile”. Imprevedibilità ed eccezionalità non sembrano proprio essere le cause né del disastro nè, tantomeno, dell’esito del dibattimento.
Per quest’ultimo sarebbe doveroso ed opportuno approfondire le reali motivazioni che portarono al non luogo a procedere per un evento che causò 19 morti a soli 5 anni di distanza dal disastro del Vajont accaduto, questo è vero, ad una certa distanza dal “Genovesato”.
Il procedimento civile finalizzato al risarcimento dei danni si protrasse invece per lungo tempo. I Fratelli Firpo avevano infatti astutamente intestato la proprietà della scarpata rocciosa a tal Sig. Queirolo, residente all'Albergo dei Poveri in quanto nullatenente. Ciò nel tentativo di scampare agli oneri per la messa in sicurezza del fronte roccioso, condizione inderogabile al fine della ricostruzione del caseggiato che per molti anni fu ovviamente abbandonato. Quando infine un notaio sentenziò l'illegittimità dell'atto Firpo-Queirolo i primi dovettero accollarsi il 75% circa delle spese per le opere di messa in sicurezza. Queste ultime furono realizzate non prima degli anni '90, ovvero oltre venti anni dopo il disastro. In questo lungo arco di tempo Via Digione fu lasciata abbandonta tra mancate promesse e innumerevoli polemiche. Nulla fu dovuto all'amministrazione condominiale;. nel 1975 infatti anche il procedimento civile si concluse con un nulla di fatto. Gli abitanti del civ. n.8 provvedettero al ripristino dell'ala andata distrutta di loro tasca e poterono tornare nei loro alloggi nei primi anni '90. Il vivaio terminò la sua attività negli anni '70/80. Le serre sono ancora oggi visibili, abbandonate sul ciglio della scarpata.
Nel caso qualche utente avesse materiale documentale, fotografico relativo alla tragedia di Via Digione, o ne fosse stato testimone, sarei grato se mi potesse contattare via mail agli indirizzi indicati nel sito. Grazie.
Note a margine :
Floriano Calvino (1927-1988) e Marcel Roubault (1905-1974)
Nato a San Remo e fratello del grande scrittore Itale, Floriano Calvino è stato professore di geologia applicata presso l'Università di Genova. Specializzato nello studio di grandi dighe prestò le sue conoscenze a favore dei sopravisstuti di sciagure come quelle Malga Villalta (Val Venosta 1972, sette alpini periti durante una esercitazione a causa di una valanga) e di Stava (1985, 268 morti).
E' stato l'unico tecnico italiano che nel 1966 aveva accettato di dare un contributo per fare luce sulle reali responsabilità che portarono alla catastrofe del Vajont (1963).
Marcel Roubault è stato l'autore del libro "La catastrofi naturali sono prevedibili" e un professore di geologia presso l’Università di Nancy (Francia). La sua fama internazionale è legata soprattutto alla ricerca dell’Uranio.
Insieme al Prof. Calvino venne contattato nel 1966 dal pubblico ministero di Belluno, Dr. Mario Bruno, per essere nominato consulente tecnico nel procedimento contro i responsabili del Disastro del Vajont. Sono pochi i protagonisti della storia del Vajont che possono essere definiti “eroi” ma di sicuro Mario Fabbri è uno di questi. Giovane ed appena nominato giudice istruttore a Belluno, mise a repentaglio la sua carriera cercando di avere giustizia. Le tre commissioni d’inchiesta (ministero LLPP, Parlamento e ENEL) avevano infatti tentato in ogni modo di affossare il nascituro procedimento penale. Ad esclusione del Prof. Calvino nessun tecnico italiano, sia esso ingegnere che geologo, aveva voluto aiutare il giudice Fabbri. Troppa paura faceva la SADE (“lo stato nello stato”) e le tesi dei suoi consulenti tecnici (fra i quali era presente Edoardo Semenza, come ricorda Mario Passi nel suo libro “Vajont senza fine” – Baldini & Castoldi, 2013) stava per avere la meglio. Ciò avrebbe significato il non luogo a procedere per una catastrofe che aveva causato 2.000 morti! Mario Fabbri cercò allora aiuto fuori dall’Italia e per soli 15 giorni riuscì ad evitare la prescrizione portando il dibattimento del Vajont sino alla corte suprema ed ad una parziale condanna di alcuni responsabili.
Così Marcel Roubault descrisse nel suo libro quel momento chiave:
“…il giudice istruttore di Belluno, dal quale dipendeva il procedimento penale, convinto della parzialità delle relazioni 'tecniche', chiese al ministro della giustizia di Roma l'autorizzazione a far riesaminare il caso da periti stranieri; quindi, ottenutala non senza molta pena, prese il bastone del pellegrino e andò in cerca degli specialisti in grado di accettare una missione sì delicata. Devo confessare che quando la proposta mi fu presentata per la prima volta [...] la mia reazione fu di esitazione. In quale impiccio andavo a cacciarmi? Tanto più esitavo in quanto conoscevo personalmente parecchi degli esperti italiani che erano miei colleghi. Finalmente, dopo settimane di esitazione, accettai egualmente, così come fecero in condizioni analoghe e con lo stesso animo [altri colleghi]. Le nostre conclusioni furono categoriche, molto più anzi di quanto potessimo presumere in partenza [...]. E l'accordo fu unanime nel dichiarare la catastrofe perfettamente, e persino stranamente, prevedibile”.
Grazie alle consulenze tecniche dei due professori fu il giudice Fabbri riuscì a depositare la requisitoria chiedendo l’arresto di nove presunti responsabili. Ebbe inizio la storia processuale del Vajont.
Ciò non sarebbe avvenuto pochi anni più tardi per la tragedia di Via Digione.
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